mercoledì 2 dicembre 2009

sogni infranti

Il destino crudele, beffardo, di ogni animo sensibile, è quello di scontrarsi costantemente, e inesorablimente, con una realtà ben poco poetica che contrasta in modo avvilente con sogni e aspettative di elevazione morale, sentimentale, spirituale, emotiva.
Certi scontri traumatici li patisco ancora, sebbene abbia cominciato a sperimentarli ben presto nell'arco della mia tormentata esistenza da ipersensibile e dovrei averci fatto il callo.
Alcuni aneddoti sono esilaranti e riescono a farmi ridere a distanza di decenni. Nonostante, al tempo, fossero vissuti come autentica fonte di frustrazione e amara disillusione.
Oggi me ne è venuto in mente uno che riguarda l'ambito amoroso.
Chi non ricorda la prima infatuazione o innamoramento infantile?
Ebbene, il mio primo "amore" aveva dieci anni e si chiamava Gino. Nome insolito per un bimbetto. Ma Gino era un "montagnino" (come i versiliesi -marini chiamano gli alto-versiliesi) e un nome del genere rispecchia molto l'antica tradizione, ancora in uso nelle comunità montane dalle mie parti, di battezzare i bimbi con i nomi di nonni e bisnonni. A costo di chiamarli Amilcare, Alfonso o Ermenegildo. Gino lo conobbi durante una settimana di "licenza" dai miei impegni scolastici di alunna di quarta elementare (io avevo nove anni), concessami magnanimamente da mio padre che, sopra le righe in molti frangenti, anche al cospetto della scuola aveva teorie tutte sue, tipo (rivolto a mia madre) "guarda che acqua che viene giù. lasciala dormì la bimba, poverina! dove la vuoi mandà con questo tempo?!"
Quella settimana pensò bene di farmi respirare un pò di aria buona, poiché doveva recarsi a Basati, frazione montana del Comune di Seravezza, dove avrebbe svolto dei lavori di ristrutturazione ad una casa. Decise, quindi, di portarmi con sè. Gino lo incontrai il primo giorno. Capelli e occhi neri, faccia da sbruffoncello, modi da scugnizzo. Mi "conquistò" subito, anche perchè, nonostante l'indole ribelle che lo rendeva un pò intrigante, nei miei confronti dimostrava un interesse speciale e attenzioni da fidanzatino.
Mio padre sembrava molto divertito e partecipe all'evolversi di questa nuova amicizia, e la incoraggiava. Con l'avanzare della mattinata, teneva d'occhio l'orologio e verso l'una mi suggeriva "vai un pò giù in strada, vedrai che ci siamo. sta perarrivare il pulmino con Gino!"
Ricordo l'emozione e l'eccitazione che mi animavano nel momento in cui scorgevo lo scuolabus giallo nella stradina sottostante. Preludio di ogni nostro agognato incontro, nonché di giochi spericolati, come il lanciarsi a tutta birra giù per le discese con una specie di slittino o monopattino (non ricordo bene). Questa intesa si protrasse per alcuni giorni e andò in crescendo, tanto da indurmi a credere in chissà quali affinità elettive o simbiosi di anime. Fino al momento dell'inaspettato dramma, o deludente epilogo che dir si voglia. Forse era domenica, perchè non mi pare che quel giorno Gino fosse andato a scuola. La brutale demolizione dei miei sogni d'amore si svolse in due atti. Il primo atto mi vide sgomenta spettatrice dell'espletarsi , da parte del mio "Romeo", di funzioni fisiologiche che di norma son vissute con pudore e riservatezza. Insomma, in parole povere, si infilò in uno sgabuzzino esterno alla casa, che era chiaramente il gabinetto, e tenne la porta aperta durante tutto lo svolgimento di suddette funzioni corporali, peggiorando la situazione con il reiterato intercalare "Indovina cosa faccio?". Ovviamente, mi era ben chiaro cosa stesse facendo ma, con la mia solita ostinazione nel voler rimuovere realtà sgradite, distogliendo lo sguardo dall'orrenda scena, ebbi il coraggio di rispondere a più riprese con un ben poco credibile "Non lo so". Quello fu l'inizio della fine. A situazione già gravemente compromessa, l'ex oggetto dei miei vagheggiamenti romantici, inferse il colpo di grazia a cotanto promettente idillio, allorché, uscito finalmente dal gabinetto, osò esternare quello che da subito dovette essere il suo sommo e più intimo desiderio, ammantandolo impercettibilmente con un velo di "pudore" nel pronunciare la frase senza il sonoro, cercando di farmela captare con il labiale. Dapprima, pensai di aver interpretato male. Non poteva aver veramente pronunciato quelle parole! Lo invitai, quindi, a ripetere, pregando trepidamente di essere smentita nella mia intuizione precedente. Ma ciò che le sue labbra silenziosamente proferirono fu nuovamente quello che non avrei mai voluto udire. Adesso non avevo più dubbio alcuno. Per un senso di squallore, di vergogna, di cocente delusione e di decenza, continuai a fingere di non aver capito sperando che almeno a quel punto desistesse e lasciasse cadere la pietosa avance. Macchè, volle arrivare fino in fondo. E, spazientito, abbandonò il labiale ed eruppe a chiare lettere nella sua richiesta oscena:

Me la fai vedé la fica?

4 commenti:

  1. beh, effettivamente, dopo tante attenzioni, fosse solo per riconoscenza, je la potevi fa' vede'la fica! :P

    RispondiElimina
  2. dici che proprio io, che mi definisco tanto sensibile, ho mancato di sensibilità? :(
    mi consola il fatto che, a distanza di così tanti anni, avrà nel frattempo provveduto (spero) a soddisfare le sue curiosità... :D

    RispondiElimina
  3. Anche mio nonno si chiamava Gino, e per quanto "strano" immagino che pure lui sia stato bambino:
    un "Gino-bambino" :-)

    Quando sento queste storie legate all'infanzia (anche la mia) penso: ma come avrei risposto/reagito se con pur con i miei 9 anni la mia "testa" fosse stata quella di oggi, ovvero da adulto.
    Pensa: ti saresti offesa? L'avresti picchiato? Lo avresti porto sotto un albero di fichi?

    RispondiElimina
  4. Caigo, ci ho pensato. Con la testa di oggi (che è tutto un programma :D), sarei stata in grado di cogliere il lato comico della vicenda (allora prevalsero senso di mortificazione e vergogna), ci avrei riso parecchio e forse, tutto sommato, avrei fatto come dice fausto (tanto, un bimbetto di 10 anni è innocuo)! :D

    RispondiElimina