domenica 10 gennaio 2010

piove

Dott.
è un sacco di tempo che non ci vediamo. Forse penserai che tutto mi vada a gonfie vele.
Mi mancano molto, invece, le nostre lunghe chiacchierate.
Anche se sulla loro fattiva utilità, non ho mai smesso di nutrire dubbi. Sì, certo. Mi servivano da sfogo. Mi aiutavano ad inquadrarmi meglio. A mettermi a fuoco. Risultavano rassicuranti. Di incontri ne abbiamo avuti tanti. Se fossi stata affetta da qualche patologia seria, te ne se saresti accorta. Invece, trattasi di "temperamento". Quel che più mi manca, forse, è il tuo approccio solare e positivo, il tuo sorriso così sdrammatizzante. Ma in tempi di miseria, qualcosa bisogna pur sacrificare. E tu fai parte dei miei "tagli". Spesso ti facevo ridere di gusto, con le mie buffe sortite, quelle che mi vengono così, senza che possa controllarle. Non importa se sono in compagnia di un'amica, di un premio nobel, di un datore di lavoro o di un luminare della scienza. Io, comunque io. Sempre la stessa. Ho capito bene, grazie ai tuoi insegnamenti, come svolgere gli esercizi dell'ABC, così come a riconoscere gli errori di pensiero.
Ma non mi sto allenando. A volte, quando parlavamo, il nostro sembrava quasi un rapporto paritario. Già al nostro primo incontro, il feeling fu immediato. Mi esprimevo con la tua stessa terminologia, non mi sfuggiva neanche il minimo dettaglio attinente alla mia psiche. Sembravo una veterana, osservasti, reduce da anni di psicanalisi o di psicoterapia. In un certo senso, ciò rispondeva al vero. Ma Freud non c'entra niente. Ha ragione Rino Gaetano, anche chi non ha letto Freud può vivere cent'anni. Le mie erano analisi da autodidatta. Da studiosa di me stessa. Iniziate in età infantile e mai abbandonate. Per questo, credo, ti sono subito sembrata tanto ricettiva. La mia storia di vita emotiva in terza persona, ti piacque molto. Ogni tanto torno a leggerla. Continuo a sorprendermi di come abbia citato l'episodio di quando a quattro anni mi persi sulla spiaggia, e non abbia fatto riferimento alcuno al mio fallito matrimonio. Ma forse no. Non mi sorpendo più di tanto. Comunque, dicevo. Non faccio più esercizi. Ho capito bene come sono fatta. Ma questo, a quanto pare, non mi è sufficiente a mutare atteggiamento. Ogni giorno mi riprometto di concentrarmi sul concreto. Di affrontare un problema alla volta. Di essere realista. E poi mi trovo a rimuginare per giornate intere sul medesimo dettaglio, e rimando a domani le questioni pratiche e importanti. Continuo a divagare. Alimento sogni e speranze e fantasticherie come ho sempre fatto. E, un momento dopo, mi ritrovo a ridimensionarli. Talvolta a demolirli. Ma se me ne sbarazzo, ho come l'impressione che di me rimanga poco o niente. E sento il vuoto che mi inghiotte. Allora tento di recuperarli almeno in parte. Giusto quel poco che basta per andare avanti. La notte, le volte in cui fatico a prender sonno, si materializzano i pensieri più angoscianti. Il primo è quello del tempo che scorre inesorabile, che mi sfugge dalle mani. Non c'è più tempo (ma tempo per cosa?) Penso all'idea che da bambina avevo di ciò che sarebbe stata la mia vita alla mia età attuale. Ed è impossibile non considerare fino a che punto il mio presente sia l'antitesi di ciò che avevo immaginato. Di come le cose, in parte per destino (o dovrei chiamarlo caso?), in gran parte per mia scelta, abbiano imboccato la direzione opposta. Ogni tanto mi soffermo ad osservare le vite ordinate delle mie ex compagne di scuola. Diciamo almeno della maggior parte. Ma avverto sensazioni contrastanti. Ora nutro una sana invidia per quella tranquillità. Adesso, invece, mi chiedo se sia tranquillità vera o apparente. A tratti, addirittura, mi suscita tristezza. Non so. In alcuni casi ho quasi l'impressione che la tranquillità sia propria di chi si accontenta. Di chi scende più o meno a compromessi. Penso a quelle che al liceo erano già fidanzate. Dopo il liceo: l'università, la laurea, il matrimonio con il fidanzato storico, un lavoro da insegnante, i figli. Metodiche, lineari, così normali. Magari avrei dovuto anch'io seguire quello schema. Perché quelle, mi dico, sembrano vite vere e proprie. Organiche, diciamo. Hanno una forma. La mia esistenza, una sequela di attimi e frammenti. Del resto, io sono quella che anela alla pioggia d'estate e al sole in inverno. Guardo fuori dalla finestra. Non sarò mai una massaia coscienziosa. I panni stesi l'altro ieri, ho dimenticato di riporli al cadere delle prime gocce. Una volta constatato che ormai era tardi, li ho lasciati lì dov'erano. Alla pioggia, però, si è unito il vento. Uno dei bastoni che sorreggevano i fili è crollato. E con lui, lenzuola ed indumenti. Abbandonati, scomposti. Ingarbugliati a terra. Zuppi d'acqua. Stamani, credo, mi sento così anch'io.
Poi penso a ieri sera. Alla minuscola casina della Sandra. Ai tre bicchieri già disposti sulla tavola al mio arrivo, insieme alla bottiglia di prosecco, ai biscotti e ai salatini. Momenti. In fondo è stata la mia scelta. In fondo, dico, mi basta così poco. O forse è sempre troppo. Perché non basta la mia semplicità a semplificare. Anzi, è tanto semplice da non essere compresa. E quindi si camuffa suo malgrado, ergendosi a complessità (apparente) nello sforzo sovrumano di capire l'altrui complessità e la complessità del mondo esterno. Allora diventa complicata veramente. Sempre più spesso, sembro utopista perfino nel proiettare aspettative nei momenti.
Prendo in mano il cellulare e rileggo il messaggio della Sandra. Sorrido. E' quello che mi è arrivato ieri sera, prima di andare a letto. Spontaneo, inaspettato. Per questo ha più valore.

Grazie della bella serata. Siete due amiche speciali. Nel mio buio, con voi intravedo la luce.

2 commenti:

  1. E' il brivido della vita consapevole. Questo essere svegli, intercettando i propri comportamenti e contraddizioni per quello che si può. E' doloroso, a tratti, ma porta alle pagine migliori.

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  2. E' il portento dell'essere totalmente e completamente nell'attimo che si vive, senza lasciarsi per cercare di risolvere l'equazione della vita per come ci appare.

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