L'incontro fortuito con una persona, mi ha portato a rievocare un tenerissimo ricordo dell'infanzia. Nell'uomo che era davanti a me in mesticheria, grazie ad alcuni "indizi", ho riconosciuto il compagno dell'asilo dal quale ricevetti la prima proposta di matrimonio in assoluto. Non mi sorprende che per lui la mia figura non sia stata fonte di simili reminescenze.
La mia memoria emotiva ha del patologico. Difficilmente è condivisa.
Peraltro, le mie frequentazioni dell'asilo si ridussero all'arco di una decina di giorni in tutto.
Lo so perché mi fu spiegato negli anni successivi. Nella mia mente di bambina, però, quei giorni furono infiniti. Nell'infanzia, la percezione del tempo è dilatata.
Oltre a M., il "bambino" della mesticheria, di quei giorni mi rimane un senso di terrore. Quello che mi suscitavano le suore.
Davanti agli occhi, ho ancora la bimba con i ricci che si rifiutava di mangiare il riso in bianco. E la monacaccia arcigna che, con la forza, si ostinava a rifilarle forchettate di riso dritto in gola, incurante dei pianti, dei quasi strozzamenti, dei conàti e della strage di candidi chicchi che, dalla bocca, si irradiava tutto intorno.
Queste, comunque, sono divagazioni inutili.
M. diede un senso a quei giorni. Fu il primo bimbo che notai, appena arrivata. Mi colpì vederlo giocare da solo. Sembra strano che a quattro anni già possa risultare tanto chiara la profonda crudeltà, e l' ingiustizia, dell'emarginazione. Voglio dire, nessuno te lo insegna, a quell'età. Nessuno mi aveva certo spiegato "Non discriminare! I bimbi sono tutti uguali". Così come nessuno, suppongo, aveva imposto agli altri miei compagni dell'asilo "Non giocare con quel bambino! Non vedi che è diverso?".
(Da qui ha origine la mia arbitraria convinzione che i fattori ambientali, in confronto al DNA, contino poco o niente).
La diversità di M., consisteva in un difetto fisico. La palatoschisi, volgarmente conosciuta come labbro leporino. Oltre a notarsi esternamente nella fisionomia del viso, si ripercuoteva in uno strano modo di parlare. Ciò era più che sufficiente a giustificare i suoi giochi solitari.
Chiaramente, divenne da subito il mio miglior amico.
Che fosse un'alleanza tra diversi?
La mia "diversità" non era originata da handicap o difetti fisici e mentali. Era frutto di una mia personale percezione. I bambini, notoriamente, sono spensierati. Quella spensieratezza, da quando ho cominciato a relazionarmi agli altri, non mi è mai appartenuta veramente. Insomma, io mi sentivo un mondo a parte.
Il giorno in cui M. mi chiese di sposarlo, mi trovai davanti ad un dilemma. Per ricordarlo così bene ancora oggi, vuol dire che presi la cosa seriamente. E seriamente analizzai la situazione. Résami conto che per lui provavo solo affetto, non mi parve proprio il caso di accettare. Non si alimentano così le illusioni delle persone buone, per poi rischiare di ferirle. Non si fanno promesse che già sappiamo di non poter mantenere. Però, e questo per me era straziante, se rispondevo negativamente, lui avrebbe indagato sulla motivazione della mia scelta. Come potevo, a quel punto, essere schietta e spiegargli "Perché non mi piaci abbastanza"? Lo avrei mortificato. Avrebbe sperimentato tutta la sofferenza del rifiuto . Quindi, cercai una mediazione. Pensai che la migliore soluzione risiedesse in una risposta spiritosa, tra il serio e il faceto. Approfittando del suo esibizionismo un pò clownesco, del suo volersi mettere in mostra a tutti i costi pur di risultare simpatico ai miei occhi e farmi divertire, puntai sulla sua presunta "inaffidabilità" e con un tono che era un ibrido tra lo scherzo e un bonario rimprovero, mi giustificai così :
"Ma non lo vedi che sei un pagliaccio?!"
Le sue risate mi confermarono che avevo dato la risposta giusta...E me ne sentii molto sollevata e fiera.
Comunque, stamattina, lo guardavo e tentavo di farmi coraggio "Ora è il momento di osare! Stavolta ce la fai a presentarti! Adesso glielo dici... che oggi saresti potuta essere sua moglie!".
Naturalmente, la timidezza mi ha fregato anche stavolta. E non gli ho detto niente.