martedì 29 dicembre 2009

Quando sono presa dall'entusiasmo (e ciò avviene di norma anche per cose assolutamente stupide), non so tenermi niente. Devo "sfogare".
E quindi beccatevi questa sciocchezza che, oltre ad avermi fatto ridere assai, ha soddisfatto per una manciata di secondi la mia megalomania latente, quella vena narcististico-esibizionistica solitamente inespressa o tenuta a bada (in pochi, infatti, ne sospettano l'esistenza)! ;)


via, giù...clicca VI!!! (detto alla viareggina)

lunedì 28 dicembre 2009

Vi prego. Risparmiatemi quegli inutili sms di auguri spersonalizzanti, inviati in serie e firmati famiglia felice del mulino bianco. Se nemmeno conosco vostra moglie (o marito) - (o magari li conosco e reciprocamente non ci sopportiamo)- né , tanto meno, i vostri adorabili e inconsapevoli pargoletti, risulta persino irritante ricevere benevole esternazioni fittizie da parte loro. Volete capirlo o no?
Quando uno si sposa e mette su famiglia rinuncia alla propria individualità? Diventa un tutt'uno con coniuge e prole e cessa di esistere come entità distinta?

Mah...

Ho faticato non poco a svegliarmi stamattina. Il cervello era stanco e non rispondeva ai comandi della mia coscienza che mi intimava di alzarmi. Quando apro gli occhi con questa sensazione di totale obnubilamento, di solito è perchè la mia attività onirica notturna è stata particolarmente intensa. Quello che mi fa rabbia, però, è che quasi mai ricordo i miei sogni. Precludendomi così la possibilità di analizzarli e scoprire qualcosa in più di me stessa. Mi alzo con la consapevolezza di non aver fatto altro che sognare, eppure nulla sembro aver trattenuto di quelle esperienze. Se non un'immane stanchezza, appunto. Invece, stamani, è riaffiorata in tutto il suo tangibile spessore l'angoscia provata durante l'attesa dell'esecuzione di mia madre. Perché proprio lei fosse dinanzi al patibolo, non saprei dirlo. Nel sogno, però, non mi sembrava affatto strano. Lo davo per scontato. Ero disperata, certo. Ma non incredula. E neanche lei. Nemmeno un tentativo per risparmiarle quel tragico epilogo. Solo rassegnazione e abbracci e baci e lacrime ed esternazioni di immenso amore reciproco. E quell'attesa che non aveva mai fine. L'intero sogno si è configurato come attesa della morte in quanto separazione definitiva. Ciò è servito da tragico sprone a confessarci le cose che non ci siamo mai dette fino ad ora. Non ricordo il momento dell'esecuzione. Forse perché nel sogno non è mai arrivato. I pochi sogni che mi capita di trattenere, in effetti, hanno per lo più a che fare con separazioni traumatiche dalle persone che amo. In questo niente di strano. E, nella fattispecie, non è la prima volta che mia madre muore di morte violenta nei miei incubi. Ne ricordo ancora oggi uno che risale alla mia prima infanzia, in cui le era stata misteriosamente recisa la testa, ma lei, incredibilmente, non era ancora morta e continuava a parlarmi, addirittura cercando di tranquillizarmi. Però, perché stanotte proprio mia madre di fronte al boia? Troppo inquietante. Poi, ad un tratto, mi sono venute in mente le ultime pagine che ieri sera mi hanno traghettato dalla veglia alle braccia di Morfeo. E tale presa di coscienza ha tolto una buona parte di mistero al mio sogno. Leggevo di Jeanne Becu, più conosciuta come Madame du Barry. La favorita di Luigi XV che sostituì nel cuore e nel letto del sovrano la frigida Reinette de Pompadour (delusione, eh? quando si pensa a Madame de Pompadour - sarà anche per via del nome vagamente onomatopeico, per così dire - ci si materializza l'idea della lussuria fatta donna e, invece, fu femmina assai poco passionale, nonché di salute cagionevole, e il rapporto che la unì al re fu più di natura affettiva e cerebrale che sensuale). Jeanne, al contrario, passionale lo era per davvero. Ed incarnò meglio di chiunque altra il concetto di "amantità". Ottenne dalla sua condizione di puttana ufficiale del re i privilegi massimi a cui una favorita potesse aspirare. Ebbe solo la sventura di ottenerli nel periodo sbagliato, alla vigilia della Rivoluzione. E ci rimise la testa. Ricordo di essermi addormentata proprio mentre ero intenta a prendere in considerazione i vari modi in cui gli esseri umani affrontano il patibolo. Mi chiedevo come reagirei io. Con la compostezza regale di Maria Antonietta che non fece una piega e, quasi altèra, porse il suo bel collo candido alla fredda lama (come auspico)? O abbandonandomi ad un contegno indecoroso costellato di urla e strepiti e inutili tentativi di fuga come la du Barry che, oltremodo patetica, arrivò al punto di implorare il Signor Boia - il famoso Samson - di non farle del male? "Grace, grace, monsieur le bourreau!".
(mia madre, ovviamente, ha affrontato la prova da vera regina. con dignità estrema, incurante del boia e della morte di per sé. il suo dolore consisteva esclusivamente nella consapevolezza di doversi congedare per sempre da chi ama, pertanto è solo nel congedo che si è concentrata, centrando l'obiettivo di non lasciare nulla di non detto o di inespresso).

giovedì 17 dicembre 2009

pinocchio forever

Che il mio rapporto con la TV sia tutt'altro che idilliaco, mi sembra di averlo già detto. Io e lei abbiamo "divorziato" parecchio tempo fa. Sporadici ritorni di fiamma, si verificano le volte in cui mi accorgo che il palinsesto propina un film interessante che mi sono persa al cinema (evento RARISSIMO. A proposito, non ho ancora capito perché "Pretty Woman" l'hanno trasmesso almeno 150 volte in dieci anni, mentre i film realmente pregevoli di recente produzione non vengono presi in considerazione o, se lo sono, capita sempre dopo la mezzanotte) ma, più spesso, trovo appiglio in reperti archeologici che ritengo meritevoli di essere visti e rivisti cento volte.
Poco fa, per esempio, mi sono illuminata d'immenso e mi sono sentita percorrere da un fremito di eccitazione nell'apprendere che alle 21,10 su Rai 3 torna il Pinocchio di Comencini. Ebbene, sì. Se cerco di ragionare da "adulta" e dare un giudizio critico del film, mi rendo conto di non essere in grado di farlo. Cioè...per me è bellissimo, ovviamente. Ma non so fino a che punto io sia condizionata dal ricordo, più che mai attuale, delle emozioni che quel "Pinocchio" mi suscitò da bambina (e, di conseguenza, nella successiva dozzina di volte in cui l'ho rivisto). L'unica trasposizione televisiva del capolavoro di Collodi (la più bella favola del mondo) degna di esistere, è quella. Tutto il resto è PROFANAZIONE. Non a caso, qualche settimana fa, nell'apprendere che stava per essere trasmessa una versione nuova di zecca, di cui ricordo solo la presenza di Luciana Littizzetto in veste di Grillo Parlante, mi sono incazzata come una bestia ed ho avuto una sorta di conato. Naturalmente non ho voluto vederla. Pinocchio è Andrea Balestri (ma che fine avrà fatto?), Geppetto è Nino Manfredi, la Fata Turchina è Gina Lollobrigida, il Gatto e la Volpe sono Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. PUNTO.
E le musiche del Pinocchio di Comencini?
Sono l'unico essere al mondo a cui viene da piangere per la commozione quando le sente?

mercoledì 16 dicembre 2009

Nessun messaggio subliminale.
Mi garba. Mi emoziona. Mi commuove. E' una delle mie preferite in assoluto. Oggi l'hanno passata alla radio mentre ero in macchina. Era un pezzo che non la sentivo nella sua versione originale (Luca Carboni l'ha reinterpretata in una cover). E ho pensato "certo che è sempre bella...". Non a caso, a undici anni ero una fan sfegatata di Lucio Dalla (mica di Miguel Bosé come le mie coetanee). Il primo concerto a cui ho assistito, è stato il suo. Nel tendone di Bussoladomani a Lido di Camaiore. Correva l'anno 1981. E ho consumato intere musicassette registrando la mia voce mentre cantavo con grande impegno e convinzione "L'ultima Luna", "Com'è profondo il mare", "Anna e Marco", "La sera dei miracoli", "Futura", "Balla balla ballerino", "Mambo", "Cara", "Telefonami tra vent'anni", "L'anno che verrà"...e naturalmente "Quale Allegria".


martedì 15 dicembre 2009

E' poco più che adolescente e tiene per mano la nipotina. Con lei si accinge ad attraversare la strada sulle strisce pedonali, alla volta del piccolo parco giochi. Indossa una graziosa minigonna. In quel periodo non ha un fisico filiforme, ma non la si può certo definire robusta. Eppure, lo choc le giunge inaspettato da un finestrino che si apre all'improvviso da un'auto in corsa. Fa appena in tempo a scorgere un ammasso di ragazzi e ragazze che stipano un'utilitaria. Ed è una tipa seduta sui sedili posteriori ad urlarle dileggiante

ma che bel maaanzooooo!!!!


L'ho sempre detto, io, che le donne sono stronze.

martedì 8 dicembre 2009


Statisticamente ho riscontrato che il lunedì è il giorno della settimana in cui sono maggiormente soggetta ad accessi di devastante tristezza. Forse è per questo che da stamattina sono convinta sia lunedì. E, puntualmente, verso ora di cena mi sovviene che su Rai 3 è la serata di "Chi l'ha visto?" (a cose "normali", non sono solita seguirlo). Ora, si potebbe ragionevolmente pensare che anche solo l'idea di vedere una trasmissione del genere (un condensato di angoscia) in condizioni psicologiche già compromesse, mi faccia inorridire. Invece, no. Al pensiero di "Chi l'ha visto?", provo un istantaneo senso di conforto. Non solo. Le note della sigla di apertura (che poi, in realtà, è anche quella di chiusura), di per sé così inquietanti, sulla mia psiche sortiscono un effetto terapeutico e RASSICURANTE. Sorvoliamo sulla cocente delusione che ho patito nel momento in cui mi sono resa conto, pochi istanti fa, che oggi è martedì. Mi incuriosisce proprio il fenomeno.

Potrebbe trattarsi dello stesso meccanismo che ci induce ad ascoltare canzoni tristi quando ci si sente tristi, o a vedere un film drammatico, o a gioire di una giornata piovosa perché meglio si coniuga al nostro tetro stato d'animo. Al piacere di crogiolarsi nella propria tristezza, di abbandonarvisi in tutto e per tutto. La voglia di toccare il fondo (per poi riemergere), il fine catartico, ecc. ecc. Quindi, un fenomeno assai diffuso e banale.

Si dà il caso, però, che "Chi l'ha visto?", non sia una trasmissione "triste", bensì , come già detto, angosciosa. E non capisco come io possa trovare rassicurazione nell'angoscia.

venerdì 4 dicembre 2009

premure moleste

Nonostante la pioggia scrosciante,
arriva armata di buoni propositi e spirito di iniziativa.
Il suo buon umore e l'atteggiamento energico, collaborativo,
oltre a contrastare con la squallida giornata,
alimentano il mio nervosismo.
Per fortuna, non è sempre così.
Anzi. L'amo con tutta me stessa.
Non certo solamente perché è mia sorella.
L'amo come persona, perché è speciale. E in lei trovo conforto.
Inoltre, è l'ultimo componente "sano", insieme a me, di una famiglia disastrata.
L'unica su cui posso contare.
Il periodo in cui stavo per perderla per sempre, non molto tempo fa,
è stato il più buio in assoluto. Ne porto ancora i segni.
Ma oggi, proprio non ci siamo.
Inconsapevole che il suo supporto da esterna è utile più a lei che a me,
si dà troppo da fare.
Questione di coscienza, si potrebbe dire.
Ingenuamente, forse pensa che venendo un pomeriggio e caricandomi una lavatrice,
o portando via qualche indumento da stirare,
possa significativamente incidere sulla mia qualità di vita.
Risulta fastidiosa, poi, quando mi guarda e mi chiede spazientita
"ma CHE c'è?".
Io lo so bene perché mostra tanta insofferenza quando le sembra di cogliere un velo di malinconica rassegnazione o di tristezza sul mio viso.
Lo percepisce come un grido represso di rabbia e di dolore.
Come se le urlassi "Guardami pure. Ti rendi conto, vero? Che vita di merda faccio?
Te, se non altro, hai la tua casa, i tuoi figli, il tuo compagno! Ti sembra giusto?".
In realtà, non grido affatto. Neanche le penso, certe cose. O meglio, ne prendo solo atto.
E senza un'ombra di rancore.
Credo sia lei che le rimprovera a sè stessa.
Dovrei esser sempre sorridente e scanzonata, per non fargliele pesare.
Comunque, oggi mi dà l'ansia.
Al riecheggiare dei suoi passi nell'ingresso e al clic del portone che si chiude,
tiro un sospiro di sollievo.
Mi posso abbandonare alla stanchezza in santa pace.

piccolo quadro psicopatologico

Esempio di miglioramento (attinente a: lieve accenno di emancipazione dai desideri altrui, presa di coscienza di ciò che realmente voglio. In sostanza: questo è quanto gli altri desiderano e si aspettano da me...ma IO?)

(Dal parrucchiere)
Voce suadente della shampista "Siccome dovrai aspettare un pò...intanto ti facciamo una maschera ristrutturante, ok?"
"No, grazie. Voglio solo una messa in piega. Se devo attendere dieci minuti, sfoglio una rivista. Se mi fate aspettare più a lungo, purtroppo me ne devo andare".

Esempio di stazionarietà (attinente a: ciclico riprensentarsi di atteggiamento abulico e passivo):

Entro nella mia stanza e, nel tentativo di arrivare al pc, inciampo immancabilmente nella stupida valigia semidisfatta che giace nel bel mezzo del pavimento da lunedì scorso. Mentalmente bestemmio e penso "non ha proprio alcun senso che questa valigia continui a stare qui". Infatti, ce la lascio.

Esempio di regressione (attinente a: senso di insicurezza invalidante. In questo caso specifico, trattasi di insicurezza scatenata da tentativi ostinati e involontari, pertanto non facilmente controllabili, di entrare nella testa altrui. Ma è davvero l'insicurezza che determina il bisogno di leggere nella testa altrui, oppure è proprio l'abitudine inveterata, nonché un'innata abilità a farlo che, nei rari casi in cui non centro l'obiettivo, mi genera insicurezza? Nell'esempio riportato, oltre alla regressione sul piano dell'insicurezza, è presente anche un sintomo di stazionarietà per quanto concerne la non ancora acquisita capacità di mentire).

"Sei pregata di dirmi la verità, per favore. Per caso, hai mai curiosato nella mia agendina nera?"

(Solo un attimo di silenzio imbarazzato e colpevole)

"Sì. In effetti l'ho sfogliata...ma non per i motivi che pensi tu".

mercoledì 2 dicembre 2009

sogni infranti

Il destino crudele, beffardo, di ogni animo sensibile, è quello di scontrarsi costantemente, e inesorablimente, con una realtà ben poco poetica che contrasta in modo avvilente con sogni e aspettative di elevazione morale, sentimentale, spirituale, emotiva.
Certi scontri traumatici li patisco ancora, sebbene abbia cominciato a sperimentarli ben presto nell'arco della mia tormentata esistenza da ipersensibile e dovrei averci fatto il callo.
Alcuni aneddoti sono esilaranti e riescono a farmi ridere a distanza di decenni. Nonostante, al tempo, fossero vissuti come autentica fonte di frustrazione e amara disillusione.
Oggi me ne è venuto in mente uno che riguarda l'ambito amoroso.
Chi non ricorda la prima infatuazione o innamoramento infantile?
Ebbene, il mio primo "amore" aveva dieci anni e si chiamava Gino. Nome insolito per un bimbetto. Ma Gino era un "montagnino" (come i versiliesi -marini chiamano gli alto-versiliesi) e un nome del genere rispecchia molto l'antica tradizione, ancora in uso nelle comunità montane dalle mie parti, di battezzare i bimbi con i nomi di nonni e bisnonni. A costo di chiamarli Amilcare, Alfonso o Ermenegildo. Gino lo conobbi durante una settimana di "licenza" dai miei impegni scolastici di alunna di quarta elementare (io avevo nove anni), concessami magnanimamente da mio padre che, sopra le righe in molti frangenti, anche al cospetto della scuola aveva teorie tutte sue, tipo (rivolto a mia madre) "guarda che acqua che viene giù. lasciala dormì la bimba, poverina! dove la vuoi mandà con questo tempo?!"
Quella settimana pensò bene di farmi respirare un pò di aria buona, poiché doveva recarsi a Basati, frazione montana del Comune di Seravezza, dove avrebbe svolto dei lavori di ristrutturazione ad una casa. Decise, quindi, di portarmi con sè. Gino lo incontrai il primo giorno. Capelli e occhi neri, faccia da sbruffoncello, modi da scugnizzo. Mi "conquistò" subito, anche perchè, nonostante l'indole ribelle che lo rendeva un pò intrigante, nei miei confronti dimostrava un interesse speciale e attenzioni da fidanzatino.
Mio padre sembrava molto divertito e partecipe all'evolversi di questa nuova amicizia, e la incoraggiava. Con l'avanzare della mattinata, teneva d'occhio l'orologio e verso l'una mi suggeriva "vai un pò giù in strada, vedrai che ci siamo. sta perarrivare il pulmino con Gino!"
Ricordo l'emozione e l'eccitazione che mi animavano nel momento in cui scorgevo lo scuolabus giallo nella stradina sottostante. Preludio di ogni nostro agognato incontro, nonché di giochi spericolati, come il lanciarsi a tutta birra giù per le discese con una specie di slittino o monopattino (non ricordo bene). Questa intesa si protrasse per alcuni giorni e andò in crescendo, tanto da indurmi a credere in chissà quali affinità elettive o simbiosi di anime. Fino al momento dell'inaspettato dramma, o deludente epilogo che dir si voglia. Forse era domenica, perchè non mi pare che quel giorno Gino fosse andato a scuola. La brutale demolizione dei miei sogni d'amore si svolse in due atti. Il primo atto mi vide sgomenta spettatrice dell'espletarsi , da parte del mio "Romeo", di funzioni fisiologiche che di norma son vissute con pudore e riservatezza. Insomma, in parole povere, si infilò in uno sgabuzzino esterno alla casa, che era chiaramente il gabinetto, e tenne la porta aperta durante tutto lo svolgimento di suddette funzioni corporali, peggiorando la situazione con il reiterato intercalare "Indovina cosa faccio?". Ovviamente, mi era ben chiaro cosa stesse facendo ma, con la mia solita ostinazione nel voler rimuovere realtà sgradite, distogliendo lo sguardo dall'orrenda scena, ebbi il coraggio di rispondere a più riprese con un ben poco credibile "Non lo so". Quello fu l'inizio della fine. A situazione già gravemente compromessa, l'ex oggetto dei miei vagheggiamenti romantici, inferse il colpo di grazia a cotanto promettente idillio, allorché, uscito finalmente dal gabinetto, osò esternare quello che da subito dovette essere il suo sommo e più intimo desiderio, ammantandolo impercettibilmente con un velo di "pudore" nel pronunciare la frase senza il sonoro, cercando di farmela captare con il labiale. Dapprima, pensai di aver interpretato male. Non poteva aver veramente pronunciato quelle parole! Lo invitai, quindi, a ripetere, pregando trepidamente di essere smentita nella mia intuizione precedente. Ma ciò che le sue labbra silenziosamente proferirono fu nuovamente quello che non avrei mai voluto udire. Adesso non avevo più dubbio alcuno. Per un senso di squallore, di vergogna, di cocente delusione e di decenza, continuai a fingere di non aver capito sperando che almeno a quel punto desistesse e lasciasse cadere la pietosa avance. Macchè, volle arrivare fino in fondo. E, spazientito, abbandonò il labiale ed eruppe a chiare lettere nella sua richiesta oscena:

Me la fai vedé la fica?